La poesia del Parini e il neoclassicismo (1951)

La poesia del Parini e il neoclassicismo, «Rassegna lucchese», n. 4, Lucca, aprile 1951, poi in «Atti del V Congresso internazionale di lingue e letterature moderne», Firenze, Valmartina, 1955, e in W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

LA POESIA DEL PARINI E IL NEOCLASSICISMO

È giudizio ormai tradizionale quello che assegna alle ultime Odi il primato poetico nell’opera del Parini e recentemente un saggio di Roberto Braccesi[1] ripresenta la tesi di una poesia pariniana, «frutto di un’estrema stagione», maturata nella tecnica stilistica del Giorno e sulla forza dell’uomo morale, storicamente impegnato.

Ma ciò che voglio qui chiarire in rapporto alla storia del neoclassicismo italiano è che lo sviluppo della poesia pariniana dalle prime Odi e dal Giorno (specialmente dal Mattino e dal Mezzogiorno, 1763-65) alle ultime Odi, fu insieme un allargarsi dell’animo pariniano da una mentalità piú combattiva e illuministica a un senso piú sereno e solenne della vita, e un precisarsi del suo gusto da forme di un classicismo illuministico e sensistico personalmente dominate ad una concezione e ad una pratica della poesia chiaramente neoclassica.

Sviluppo essenziale di idee, di sensibilità e finalmente di poetica a cui contribuí direttamente e indirettamente la diffusione delle nuove teorie neoclassiche che dal centro romano winckelmanniano-mengsiano si diffusero anche a Milano, in quel centro di collaborazione fra letterati e artisti (Appiani, Traballesi, Franchi, Piermarini ecc.) che fu l’Accademia di Brera, e in genere nell’ambiente letterario dell’Italia settentrionale dove le simpatie classicistiche erano già forti e tali da consentire la determinazione carducciana di una scuola classicistica emiliana e da far chiamare «lombarda» tout court la maniera neoclassica di fronte ai residui arcadici forti nel meridione e noti nel tempo come «facilismo meridionale».

È chiaro che sin dagli inizi di Ripano Eupilino anche l’Arcadia fu per il Parini una via di classicismo e che tale egli la presentò piú tardi nei suoi Princípi di belle lettere come quella che, «richiamando gli ingegni alle eleganti semplicità degli antichi esemplari greci, latini, italiani», contribuí a far riavere l’Italia dalla «vertigine del ’600». Ed è chiaro che sia nelle prime Odi, sia nelle prime due parti del Giorno, la poetica pariniana indirizzava l’esigenza di una rappresentazione perspicua, evidente, sensibile della realtà in funzione polemica ed ironica, verso la precisione classicistica, verso la sua capacità di figura e di rilievo: in una sintesi illuministica di classicismo sensistico che riprendeva le esperienze piú nitide ed eleganti del Savioli e quelle dei traduttori classicisti che dal Marchetti in poi avevano cercato univocamente di stringere nell’endecasillabo sciolto la precisione ed eleganza dei modelli e l’evidenza sensuosa di una realtà fisica in funzione polemica o galante, didascalica o scherzosa, ma sempre a suo modo impegnativa nella direzione del figurativo, del plastico e del musicale in efficace funzione figurativa.

Il classicismo razionalistico dell’inizio del secolo, che il Metastasio aveva risolto in canto e in una originale utilizzazione dell’impeto barocco, attraverso i precetti e gli esempi di precisione empiristica di un Pope (si pensi alla versione del Riccio rapito del Conti) aveva aggiunto alle vecchie richieste di schemi intellettuali di chiarezza ed evidenza quella essenziale di una rappresentazione sensibile: o in direzione edonistica galante o in direzione didascalica o polemica ed ironica all’insegna di una battaglia per la civiltà a cui il Parini accennava all’inizio del Discorso sopra la poesia (1761) parlando dello spirito filosofico «quasi genio felice sorto a dominare la letteratura di questo secolo» e che annunciava con chiarezza estrema nei noti versi della Salubrità dell’aria:

Va per negletta via

ognor l’util cercando

la calda fantasia

che sol s’allegra quando

l’util unir può al vanto

di lusinghevol canto.

Il vecchio precetto oraziano rifioriva con un senso molto preciso dell’utile e del dolce legati ad una concreta civiltà attiva e combattiva nei cui limiti, con la sua ispirazione e con i suoi intenti di alto stilista, si muove il primo Parini.

E se nelle prime Odi il song moralised di cui parlava il Pope trovava un’espressione di singolare efficacia rappresentativa nella ispirazione e nella costruzione di una esigenza illuministica nel pieno di un entusiasmo e quasi di una religiosità civile e naturalistica tutt’altro che astratta ed esteriormente filosofica (si pensi al Bisogno del 1766 con la sua rappresentazione dura, sintetica e tutta «veduta» dell’uomo trascinato dal bisogno al furto e al delitto: «mangia i rapiti pani / con sanguinose mani»), è soprattutto nelle prime parti del Giorno (1763-65) che l’incontro e la sintesi fra i motivi edonistici e moralistici dell’illuminismo sensistico nella potente interpretazione personale del Parini hanno un risultato piú complesso, piú alto e piú letterariamente mediato. L’indugio descrittivistico (esemplare la lunga sequenza degli oggetti portati nel suo astuccio dal giovin signore nel Mattino, cosí ammirata dal Mazzoni[2] nello scambio fra realtà ed evidenza poetica), la ricerca del rilievo sensibile degli oggetti, sono giustificati dall’animazione essenziale della satira e del compiacimento del mondo elegante e corrispondono soprattutto a quel bisogno di concretezza visiva, tattile, fonica, che segna insieme la gustosità e il limite del tour de force di cui parlava la Staël. Sicché oltre alla presenza animatrice e limitatrice della battaglia illuministica (partendo dal carattere sacro della natura contro l’assurdità di una classe parassitaria e stoltamente crudele per una riforma che sistemasse in ordine naturale e razionale la struttura della società lombarda) la poetica del classicismo illuministico-sensistico è fortemente legata all’esigenza di una rappresentazione integrale e sensibile e al rilievo prezioso del rococò.

Poche opere come il Giorno, specie nelle due prime parti quali furono pubblicate dall’autore nel 1763-65, sono cosí rappresentative e centrali – nell’incontro delle esigenze di gusto e di civiltà tradotta in linee di gusto – per un tempo storico ben determinato. E certamente non basta a spiegarci questa poetica dell’evidenza (per effetti di battaglia, di compiacimento, di ironia, di caricatura sdegnosa e sorridente, di rappresentazione preziosa) quanto scrive il Fubini (pur nella sua giusta reazione a posizioni troppo esterne e solo culturali) circa il «sensismo» nella poesia del Giorno: «non si tratta, in questo come in ogni altro episodio del poema, di sensismo o d’altra dottrina filosofica, bensí di poesia letteraria che ha per suo supremo ideale la perspicuità dell’immagine»[3], perché resta sempre da vedere in quali condizioni di cultura e di gusto si ripresentasse quell’ideale pur nella sua ripresa di orazianesimo e di una linea caratteristica della tradizione classicistica.

In verità quel classicismo si nutriva di particolari suggestioni e corrispondeva a particolari esigenze e il Parini tanto piú le traduceva e le nobilitava artisticamente quanto piú personalmente le sollevava in una forma di raffinato classicismo sull’appoggio di una ispirazione centrale ricca e capace di direzioni e sfumature molteplici. E quel classicismo, se era la costante piú visibile del gusto pariniano (e non mai un motivo di sterilizzazione e di isolamento come parve al De Sanctis, pur nel giusto accertamento di un eccesso di elaborazione non corrispondente ad una grande potenza ispirativa[4]), venne a cambiare la sua concreta funzione, a risultare diverso in un approfondimento dell’animo pariniano e in un cambiamento di gusto che smussò le punte troppo acri, il rilievo troppo gustato, la polemica e la satira piú esterne e preparò un piano di limpidezza e di spaziosa apertura.

Cosí la maturata tensione intima poté dar luogo a nuove poesie generalmente superiori alle opere precedenti, anche se con il pericolo di un rasserenamento spesso troppo tranquillo e soddisfatto di fronte al fremito piú turbato di certe invettive delle prime Odi[5].

Senza postulare miracolosi cambiamenti e avvertendo che di sviluppo e non di rottura si tratta in un’esperienza vitale ed artistica cosí continua e meditata, è appunto fra l’epoca delle prime Odi e delle due parti pubblicate del Giorno, e quella dei rifacimenti, della continuazione in vicinanza delle Odi della maturità, che va calcolata decisamente la presenza del nuovo gusto neoclassico in coincidenza, in rafforzamento e stimolo di una maturazione intima della poesia pariniana.

Alieno da qualsiasi determinismo esterno nei riguardi della poesia, ma convinto della sua storicità e della sua interdipendenza su piano letterario con altre esperienze e con condizioni di costume e di gusto legate alla storia di un’epoca, penso che per la poesia del Parini vada indagato un passaggio evidente, non solo in un affermato crescere di ispirazione, ma nelle condizioni culturali in cui tale maturità si attua e si precisa. Evidentemente altri scrittori sentirono prima l’impegno illuministico e poi la suggestione della posizione neoclassica senza perciò scrivere né il Giorno né le Odi maggiori, ma la grandezza personale del Parini non si svolse senza un fecondo contatto con il gusto del tempo, e la storia non rimase in lui pretesto emotivo di reazione: il Parini portò alla massima forza, nella sua poesia attraverso la sua poetica, le aspirazioni di un’epoca che poté riconoscersi prima nel Giorno e poi nelle Odi maggiori, in momenti successivi e contigui del proprio svolgimento.

Nello stesso Giorno già l’iniziale scena dell’alba era esemplare nella redazione 1763 per una poesia classicistica (ma soprattutto per la fase illuministico-sensistica) nella sua linea pacata, ordinata e pur vivace, pronta a chiudersi in particolari preziosi e compiuti nella loro lucentezza e nella loro acuta e piacevole sensoriale evidenza, nella collaborazione di una misurata mitologia di mezzi stilistici (aggettivazione, inversione e modesta arcatura) per rilievo di interna complessità e di eleganza. Ma si può notare nelle parti successive e nei rifacimenti fino al manoscritto Ambrosiano IV, che il Bellorini adottò come definitivo per le prime due parti[6], un progressivo affermarsi anche in minuti particolari di un gusto sempre piú fermo, per forme spaziose e distese che risentono chiaramente di un’esigenza neoclassica sulla direzione della edle Einfalt, di una sensibilità “nobile” che smorza le tinte troppo vivaci, l’impegno troppo pungente, il rilievo piú minuto di colori e di suoni.

Cosí nello stesso inizio non solo l’abolizione della dedica alla Moda e dei trentadue versi introduttivi indica il ripudio di un attacco di società piú frivolo nella sua ironia salottiera e il desiderio di un inizio piú limpido in linee piú composte ed armoniche, ma le correzioni del manoscritto Ambrosiano IV 3-4 seguono una volontà di ritmo piú largo e pacato in cui si evitano suoni troppo addensati e coloriti, rilievi troppo minuti: come nei versi 13-14 che dalla loro forma primitiva

(il rugiadoso umor che, quasi gemma,

i nascenti del sol raggi rifrange)

vengono modificati in forme insieme piú semplici ed elette:

fresca rugiada, che di gemme al paro

la nascente del sol luce rifrange.

Naturalmente, comune alle quattro parti ed ai rifacimenti è l’ispirazione generale del poemetto nel suo tono complesso di ironia e di fascino elegante[7], di sdegno morale e di descrizione piacevole, ma senso del decoro e di una grazia piú lieve crescono insieme al distacco che alleggerisce la stessa ironia e lo stesso sdegno e permette una visione del mondo della vuota eleganza non certo meno sicura nel suo riferimento ad una condanna (la famosa sfilata degli imbecilli nella Notte!), ma quasi senza ira, come fonte di un disegno leggero, sorridente, libero.

Tutto si fa piú allusivo e la mitologia sempre piú elegante e viva nella propria grazia decorativa perde la sua funzione piú altisonante, satirica (l’enfasi rumorosa del carro di Plutone nella scena del ritorno notturno del giovin signore nel Mattino), diventa a volte quasi un gratuito pretesto di disegno, di figurine poco insistenti, di decorazioni alla Luigi XVI o alla Chippendale (come l’episodio dell’arricciatura dei capelli che manca nell’edizione 1763 del Mattino e compare al verso 439 dell’ultima redazione), di lievi descrizioni forse piú ornamentali, ma in sé e per sé piú ariose e sottili, e in tutto il poema piú corrispondenti ad una costruzione meno puntuale e minuta:

Mira la Notte

che col carro stellato alta sen vola

per l’eterea campagna; e a te col dito

mostra Teseo nel ciel, mostra Polluce,

mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi

che per mille d’onore ardenti prove

colà fra gli astri a sfolgorar saliro.

(Notte, vv. 141-147)

Ma, ancor piú chiaro che nel Giorno (che pure andrebbe rivisto alla luce di questa linea essenziale, in cui senza perdere il suo primo centro d’ispirazione meglio si spiegano le caratteristiche dell’ultima parte), il passaggio di gusto e di poetica nel Parini si avverte nelle Odi piú direttamente legate alla suggestione di una nuova lettura di Orazio e di Pindaro corrispondente all’affermazione del neoclassicismo.

Dopo la pubblicazione della Storia del Winckelmann (tradotta proprio a Milano nel 1779), i principi del Winckelmann e del Mengs (favoriti dai fermenti classicistici precisati nell’eclettismo romano) si erano diffusi rapidamente nell’Italia settentrionale e, quando nel 1776 fu aperta a Milano l’Accademia di belle arti di Brera, il Parini, quale professore di eloquenza e belle lettere, vi si trovò a diretto contatto con artisti neoclassici come Traballesi, Franchi, Albertolli, Knoller, Piermarini, Appiani. E con molti di loro collaborò come scrittore di progetti per teloni di teatro (quello della Scala del 1778, o del teatro di Novara), per soffitti, per decorazioni nel Palazzo Reale (l’Apoteosi di Giasone e l’Aurora dello Knoller, il Giove tonante del Monticelli, i Riposi di Giove, Amore e Psiche, il Trionfo di Igea del Traballesi) e in altri palazzi in cui il gusto neoclassico faceva la sua prova integrale di grandiosità, corretta, specie nella pittura, da quegli elementi di grazia che non mancano certo nello stesso Winckelmann, ammiratore del Gessner, vibrante di tenerezze arcadiche e rococò[8].

E cosí una prova esterna alla poesia, ma assai importante, della nuova direzione del gusto pariniano posteriore alle prime Odi e alle due prime parti del Giorno è costituita da quei soggetti per teloni, quadri e decorazioni che vanno sotto il nome di «programmi di belle arti» e rappresentano l’adesione del Parini al canone neoclassico del letterato che prepara soggetti per il pittore[9] e piú generalmente alle tendenze del neoclassicismo figurativo negli ideali di proporzione e ordine, di semplificazione essenziale, di centralità delle figure umane divinizzate, della serenità, della Unbestimmung, di incontro fra allegoria e moralità nel senso preciso del Versuch einer Allegorie del teorico tedesco.

Le figure essenziali di Giove («il piú bello dio che si possa, di forme grandi, con una maestà e spezie di riposo anco fra l’ira»), di Apollo («sarà pieno d’entusiasmo bensí: ma di quello che nasce dai piú intimi sentimenti del cuore, anziché dalla riscaldata fantasia. Però l’attitudine e l’espressione di lui sarà franca ed ardita, ma senza troppo grande alterazione di moti») indicate al pittore per i teloni della Scala o del teatro di Novara o per altri soggetti decorativi, sono chiari riflessi di precise figure della Storia del Winckelmann e dei principi della bellezza ideale, della «grazia sublime» che esclude ogni sdegno troppo vivace, ogni espressione realistica, ogni gusto del grottesco e del deforme, per cui l’armonia etico-estetica, la kalokagathia si sostituisce all’edonismo vivace del classicismo rococò e all’utile dulci dell’illuminismo.

L’influenza del Winckelmann, che correggeva e rinforzava quella delle tavole ercolanensi (con le varie immagini, ad esempio, di Chirone ed Achille che certamente il Parini dell’Educazione vide) le quali avevan già stimolato il Savioli e il Parini del primo Giorno, veniva a confortare la tendenza pariniana a rappresentazioni dove dignità e bellezza si fondessero e letterariamente rinforzava e precisava il principio della esemplarità greca che il Parini ribadirà con forza polemica nella Gratitudine (1790), contro la moda preromantica e un classicismo tenue e di seconda mano.

Vedrò, vedrò da le mal nate fonti

che di zolfo e di impura

fiamma, e di nebbia oscura

scendon l’Italia ad infettar dai monti,

vedrò la gioventude

i labbri torcer disdegnosi e schivi:

e ai limpidi tornar di Grecia rivi

onde Natura schiude

almo sapor che a sé contrario il folle

secol non gusta, e pur con laudi estolle.[10]

Nel sogno winckelmanniano (cosí mosso da una tensione romantica ad un assurdo regno di perfezione e da un’estetica passione per la bellezza virile per cui lo stesso Cristo é immaginato come «il piú avvenente tra i figli degli uomini») un mondo di eroismo e di bellezza presuppone e richiede, nella sua espressione contemplativa e senza turbamento (Grecia contro medioevo, barocco, etruschi «troppo inclinati alla malinconia e alla tristezza»), un’essenziale condizione di pace, di tranquillità. Per cui l’esteta di Stendal rifiuta anche il precetto del Roscommon «to write with fury, but correct with flegme» perché «la tranquillità è lo stato proprio della bellezza, come del mare: e si richiederà questa tranquillità non solo nella figura che disegnar si vuole, ma in quello stesso che la disegna e la forma; perché la giusta idea di una sublime bellezza prodursi non può fuorché nella mente di un’anima quieta, e da ogni particolare immagine sgombra»[11].

Ebbene, insieme all’esemplarità greca (piú Pindaro, Anacreonte, Omero che Orazio e Virgilio e totale rifiuto dei moderni non classicisti) e al gusto del figurativo e della funzione essenziale della mitologia e di un essenziale «travestimento» greco, è nel principio della «tranquillità» e della decorosa semplicità, del sublime tanto piú grande quanto piú semplice ed unitario, che il Parini «maggiore» utilizza la lezione del neoclassicismo winckelmanniano e arricchisce e rinforza la tendenza piú alta del proprio animo pur nella sua condizione vitale di vivacità (con l’apertura al comico, al sorriso dell’autoritratto senile del «vecchiarello immaginoso», ai gustosi discorsi sulle caricature e sulle maschere), di rappresentazione concreta e sensibile (con l’amore quasi ottocentesco della sanità campestre, del paesaggio vigoroso di certi abbozzi e di certi idilli-novelle come il Primo bacio), di alto sdegno per ogni viltà ed ogni oziosa dispersione incivile, che se ha perso le sue punte piú acri e battagliere non smentisce mai la sua vocazione di alto ammaestramento con tutto ciò che essa comportava di limitativo e di «mediocre» (Medio tutissimus ibis).

E mentre nel Corso dei principi di belle arti (1775) l’influenza neoclassica rafforzava, specie nella seconda parte, la tendenza a una precettistica imperniata sull’ordine, la proporzione, l’unità (anche se la base teorica rimanevano i trattatisti francesi del primo Settecento fra Batteux e Du Bos), e smorzava l’attenzione all’essenziale principio del rilievo degli oggetti[12], nell’esercizio della sua poesia ben si può constatare una esigenza di impegno civile meno puntuale e polemico, una ricerca di costruzioni ampie, di una rappresentazione meno efficace e brillante. Come, ad esempio, nell’inizio della Laurea (1777) in cui il tema illuministico è temperato, allontanato – non eliminato – in un’aria di mito, in una solennità piú distesa, piú da celebrazione che da battaglia. Pindaro (lettura essenziale di questo periodo nell’originale e nella stimolante versione del suo amico Pagnini[13]) «con gli inni alati» collaborava ad un ideale poetico di solennità implicante distacco, aura remota nobilitante, e soprattutto (nell’accezione pariniana mai priva di sorriso e di sfumature, mai arcigna e gradassa come in molti innografi dell’ultimo Settecento) tranquillità interiore, stato d’animo di costante serenità ed equilibrio, condizione ineliminabile per la poesia.

Orecchio ama placato

la musa, e mente arguta e cor gentile,

come dirà nella Recita dei versi (1783). Il «retto e bello», il «vero e bello» ha preso un senso piú vasto e meno utilitario (come aveva nella Salubrità dell’aria o negli sciolti dell’Algarotti «util poeta» e «filosofo leggiadro»), e mentre il «bello», prima brillante e prezioso, sensibile e piacevole, predomina ora come perfezione armonica e semplicità decorosa, il «vero» si allarga e – se si vuole – si generalizza in un senso di umanità e civiltà già affermate, piú storico, meno violentemente e puntualmente «contemporaneo».

Senza nessun abbandono del saldo dovere verso la città umana, dell’umanesimo illuministico nella sua pratica concretezza del riformismo «lombardo», il Parini denuncia sempre piú nella sua poetica matura l’esigenza di una visione della vita piú serena, di un tono magnanimo e superiore che si incontra e si convalida con le offerte del gusto neoclassico. La funzione alta della poesia come espressione di bellezza-verità, il decoro estetico e morale, scaturisce cosí dal medio equilibrio umano raggiunto dal Parini piú maturo e corrisponde agli ideali estetici piú profondi del neoclassicismo settecentesco, pur dentro i suoi margini sfumati di estetismo, di compiacimento idillico, di residui di grazia rococò. Una chiarezza interiore, una luminosità piú calma e costante, una pacata saggezza di fronte allo spirito frizzante e vigorosamente polemico del periodo precedente (e pur non esclude ed anzi meglio spiega la severità di spietata analisi morale di A Silvia) corrispondono, in questo Parini che vede con maggior distacco e maggior padronanza la materia della sua esperienza, ad una linea costruttiva ampia e meno minutamente rilevata, entro cui si distendono immagini e motivi in colori poco intensi e pur morbidi, in musica meno brillante, persino a volte in una impressione di minor vigore e di minore urgenza vitale.

L’armonia che risulta dalla visione piú ferma della vita (da sensazione istintiva e costruzione civile) è letterariamente adeguata in una poetica coerente alla migliore suggestione della condizione etico-estetica del neoclassicismo ed anzi si può ben dire che nella nostra letteratura quella poetica la realizza, al di là del fanatico entusiasmo del Winckelmann, in maniera esemplare e tale da potersi considerare un momento fondamentale nella storia di quel gusto, nella sua applicazione in sede letteraria. La condizione del «cor gentile» e dell’«orecchio placato» diventa la base sentimentale e poetica delle ultime Odi come il velo del mito ampio e solenne, austero e non privo di un sorriso sereno, e la traduzione naturale e altrettanto decorativa di storia moderna in termini classici, antichi, in figurazioni piú disegnate che colorite, diviene, nella linea classicistica già viva sin dalle Rime di Ripano Eupilino, la coerente possibilità di espressione del mondo poetico pariniano, dell’ideale equilibrio fra piacere e dovere, nell’adesione spontanea e rinnovatrice di un gusto stimolante e insieme a sua volta arricchito proprio da un’esperienza cosí omogenea e cosí saldamente originale.

Salute a te, salute,

città cui da la berica pendice

scende la Copia, altrice

de’ popoli, coperta di lanute

pelli e di sete bionde

cingendo al crin con spiche uve gioconde.

Cosí si apre la Magistratura del 1788 e in questo saluto a Vicenza, come nell’addio al Maestro Sacchini del 1786

(Te con le rose ancora

de la felice gioventú nel volto

vidi e conobbi ahi tolto

sí presto a noi da la fatal tua ora,

o di suoni divini

pur dianzi egregio trovator Sacchini),

la linea delle figure contemplate e poco incise e quella di una musica cosí discreta e sicura (al di là del tenero canto metastasiano, della musica secca e brillante del Savioli, e pur lontano dal clamore prosastico dei pindarici), solenne e intimamente sobria (ordine non schematico, ma gusto istintivo di proporzione), corrispondono ad una interiore esigenza di contemplazione e di celebrazione. Che può decadere in prosa (gran parte dell’ode La Gratitudine, pur cosí interessante per i suoi spunti e per il suo tentativo di costruzione grandiosa e familiare), ma che può salire a vera poesia nella grande ode Alla Musa e può raggiungere alte condizioni poetiche e davvero il culmine di un lungo cammino di poetica e di poesia.

Né certo il Messaggio ed A Silvia (1793, 1795) sfuggono a questa chiara poetica neoclassica, nata nell’incontro di un’originale maturazione. dell’animo pariniano con le offerte del gusto figurativo di cui anche le figure femminili, che compaiono in queste odi o nel Pericolo e nel Dono, risentono le indicazioni di grazia e perfezione nella quale l’evidenza edonistica sollecitata dalle figurine ercolanensi si compone superiormente senza perdere la morbidezza e la sensibile eleganza. Fra le nitide e lievi figurazioni mitologiche (le «vergini ore» che provano «i piedi e l’ali»), nel tono di pacata autoironia e di melanconia senza peso di sentimentalismo preromantico, l’omaggio alla bellezza che parte dal tipico stato d’animo pariniano («il grato della beltà spettacolo» legato, in questo neoclassicismo sensibile e ricco di un senso non astratto della vita, ai «di natura liberi doni ed affetti») si concreta nell’immagine della «inclita Nice», figura di disegno perfetto e leggero come la tenue e limpida musica che l’accompagna:

Come di limpide

acque lungo il pendio, lene rumor.

Certo la poetica neoclassica del Parini è arricchita di una pienezza vitale, di una complessità di sfumature di sensibilità che la distingue da certe affermazioni neoclassiche piú gelide, astrattamente incantate in un desolato Olimpo di statue esangui, né d’altra parte la passione romantica tende quell’esile perfezione, quel decoro etico-estetico a significati artistici ed umani piú profondi ed intensi, e qualcosa del piú brillante rococò, della galante eleganza miniaturistica di metà Settecento rimane nel sorriso piú contenuto e sereno dell’ultimo Parini (e il legame intimo, lo svolgimento dentro posizioni diverse è piú che saldo e visibile). Come la sua forza di sdegno non decade certo, non diciamo nella Caduta (in cui però il vigore del ritratto e del song moralised è superiore alla totale resa poetica di una posizione che poté dare l’avvio all’interpretazione moralistica e tendenziosa del risorgimento con la pretesa superiorità dell’«uomo» sull’artista), ma neppure in A Silvia.

Ma ecco che anche qui, nella costruzione lucida e forte, solenne e scandita, in forme di essenziale semplificazione, di esatta proporzione, la singolare potenza morale del Parini ha perso i suoi impeti piú particolari e la sua poesia, a volte monotona e predicatoria, si è fatta piú sicura e piú distaccata e, mentre implica una intelligenza dei sentimenti e della sensibilità veramente superiore, è capace di un disegno piú nitido e insieme meno sommario (com’era nel Bisogno) e meno violentemente sensistico. Eleganza e forza si sono meglio fuse e la figura di Silvia «sobria e pudica» può agevolmente coesistere con la rappresentazione netta e potente della corruzione delle donne romane: una superiore calma espressiva che misura immagini e suoni non per effetti di efficacia e di evidenza, ma per un risultato di rappresentazione lirica in cui la cronaca (che nutriva e limitava le prime Odi) è pretesto di storia poetica e l’impegno combattivo si è dissolto come in una piú libera allegoria di miti.

Lungi dall’archeologia piú vacua di certi vati neoclassici, il Parini era riuscito ad esprimere una calma potenza, una forza contenuta, una rappresentazione che può giungere al tragico, senza turbamento e senza fremiti scomposti, e soprattutto aveva raggiunto una condizione fra vita e poesia non arcadicamente idillica, non preromanticamente tempestosa, ma serena e seria, misurata e sensibile, che condensa l’aspirazione neoclassica alla saggezza e alla pacatezza espressiva, alla sublime semplicità, adibendo miti e solennità alle misure piú intime dell’animo amante del «vero e del bello innocente», in una interpretazione diversa da quella scenografica e grandiosa di un Monti, poeta di affreschi e di statue imperiali quando non si riavvicinava originalmente, come nella Feroniade, ad un mondo di miti come essenziali immagini di un senso piú intimo e familiare della vita.

La condizione essenziale fra vita e poesia al disopra di posizioni polemiche, di satira, di poesia efficace ed «utile», sarà quella che costituisce il centro animatore dell’ultima ode Alla Musa e che, enunciata essenzialmente nel verso 30

e cerca il vero e il bello ama innocente,

vive in tutta l’ode nell’estrema coerenza dei sentimenti tradotti in linguaggio nitido e senza sforzo nella sua sintetica espressività («placido senso», «puri affetti», «semplice costume», «tra parco e delicato», «età tranquilla», «il core sano e la mente»), in un ritmo spazioso e calmo senza urgenza e senza zelo pratico, senza rilievo brillante, come la visione generale non insiste sul particolare gustoso e sensibile come avveniva ancora nel primo Giorno.

La capacità espressiva del Parini era giunta ad un grado di estrema finezza, ben superiore al tour de force denunciato dalla Staël per il Giorno, ed operava al servizio di una fantasia sicura e limpida se pure ai margini di una possibile monotonia, di una trasparenza quasi eccessiva. Come il tono ironico si è ridotto a grazia sorridente – si pensi all’inizio della soave parlata della Musa alla giovane sposa sul puro disegno neoclassico di una toilette senza preziose eleganze

Musa, mentr’ella il vago crine annoda,

a lei t’appressa; e con vezzoso dito

a lei premi l’orecchio e dille... –,

cosí tutta la poesia pariniana si è alleggerita in un discorso lirico pausato e trasparente, ben lontano dalle forme pungenti e vivacemente sensibili del Mattino o da quelle rudi e sommarie delle prime Odi.

Io di mia man per l’ombra e per la lieve

aura de’ lauri l’avviai vêr l’acque

che, al par di neve

bianche le spume, scaturir dall’alto

fece Aganippe il bel destrier che ha l’ale...

Bellezza ideale e grazia sensibile, nobile, eletta familiarità come nell’immagine celeste ed affabile della Musa

(io stesso, il gomito posando

di tua seggiola al dorso, a lui col suono

de la soave andrò tibia spirando

facile tono)

han trovato nella poesia dell’ultimo Parini le condizioni piú originali ed omogenee di disegno puro, di figura, di inno mitico in riferimento a un mondo di affetti semplici e sublimi:

Scenderà in tanto dall’eterea mole

Giuno che i preghi delle incinte ascolta...

Sarà piú tardi il grande Foscolo a rinnovare personalmente la poetica neoclassica e a disperdere la pesantezza gessosa dei pittori-dottori con un senso romantico del mito, con l’unione del «mirabile e del passionato», per giungere nelle Grazie, l’incompiuto capolavoro del neoclassicismo romantico europeo, ad una poesia di un carattere cosí originale che – sul limite piú arduo fra romanticismo e neoclassicismo – non fu compresa né dai romantici né dai classicisti. Ma nei limiti del gusto settecentesco italiano è il Parini delle grandi Odi il poeta che meglio ha usufruito delle suggestioni estetiche d’origine winckelmanniana e che su di una linea tradizionale ha potuto realizzare la poesia della stille Grösse und edle Einfalt, della semplicità sublime e della «calocagatia» partecipata in una profonda verità personale, senza il fremito ansioso del finale dell’Ode on a Grecian Urn, senza l’appassionata richiesta di compenso dell’Hyperion, in un equilibrio che è anche l’estremo limite della piú tipica civiltà settecentesca.


1 Il problema del Parini in «Atti dell’Accademia dei Lincei», 1950, poi ristampato in volumetto, Pisa 1959.

2 «Par di vedere dentro l’astuccio, in bell’ordine, lo stocchino per gli orecchi, lo stuzzicadenti, le pinzette, le forbicine» (Le Odi; il Giorno, a cura di G. Mazzoni, Firenze 1938, p. 215).

3 «Spettatore italiano», febbraio 1949, poi in Questioni e correnti di storia letteraria dirette da A. Momigliano, Milano, 1949, p. 534, ed ora in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954.

4 F. De Sanctis, Opere, Saggi critici, III, Napoli, 1932, p. 247: «Quella tanta perfezione ti è sospetta, perché vi senti troppo la lima e senti in quel travaglio la potente energia individuale anzi che un risultato collettivo».

5 E del resto proprio la maggiore sicurezza del proprio animo e dei propri mezzi espressivi, il senso di maggior serenità e di distacco permetteranno al Parini di rappresentare scene piú ricche di turbata sensibilità, come le scene della crisi isterica nel Vespro o della corruzione delle donne romane in A Silvia.

6 Si veda circa il problema del testo del Giorno L. Caretti, Nota sul testo del Giorno del Parini, in «Studi di filologia italiana», 1951, poi in Filologia e critica, Milano-Napoli, 1957; ed anche M. Fubini (presentazione dell’edizione del Giorno a cura di G. Albini, Firenze, 1957) che rimane ancora piú decisamente fedele alla sua preferenza per la prima redazione delle due prime parti.

7 Essenziale motivo che il Petrini (La poesia e l’arte di G. Parini, Bari 1930) fissò nella direzione rococò del primo Giorno e delle poesie minori.

8 Il piú stimolante avvio ad uno studio delle relazioni fra neoclassicismo figurativo e letteratura del secondo Settecento è costituito dal saggio Gusto neoclassico e poesia neoclassica di A. Momigliano (in Cinque saggi, Firenze 1945), scritto in relazione al libro di M. Praz, Gusto neoclassico, Firenze, 1940.

9 In un frammento (Poesie, Bari 1929, II, p. 228) il Parini sottolinea, rivolgendosi all’Appiani, il comune ideale estetico da perseguire con il plettro e con il pennello, e in un sonetto del 1793 suggerisce all’amico un soggetto per quadri. E nel discorso inaugurale del Corso di Belle Lettere (Prose, I, 170, ecc.) parla dell’alleanza fra artisti e letterati.

10 V. in proposito il capitolo sul Parini nel mio Preromanticismo italiano cit. La lettura di quel capitolo e quella del saggio Parini e l’illuminismo, in Carducci e altri saggi, Torino, 1960, sono integrazione indispensabile alla mia generale interpretazione della poesia pariniana.

11 J.J. Winckelmann, Opere tradotte, Prato 1830, II, p. 456.

12 Nel giovanile Discorso sulla poesia (Prose, ed. Bellorini, Bari 1924, I, p. 324) aveva insistito soprattutto sulla necessità che il poeta fosse naturalmente disposto a «sentire, in una maniera, allo stesso tempo forte e delicata, le impressioni degli oggetti esteriori».

13 Dopo la versione secentesca dell’Adimari (1631-32) il Settecento aveva avuto numerose traduzioni di Pindaro e l’affermazione del neoclassicismo piú austero, meno «ercolanense», aveva dato una nuova lettura delle Odi ispirata al «sublime» celebrativo.